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EURASIA O EUROBABELE?

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Claudio Mutti

 

Il testo pubblicato qui di seguito ricostruisce l’intervento tenuto dal direttore di “Eurasia” il 2 aprile 2016 a Genova, nella conferenza organizzata dall’associazione culturale “Il Ramo d’Oro” sul tema: “Eurasia o Eurobabele? Europa al bivio tra Russia e America”.  

 

Babele = balcanizzazione

Immagino che, assegnando a questa conferenza un titolo che evoca il racconto biblico della confusione delle lingue, gli organizzatori non abbiano inteso semplicemente alludere al multilinguismo che caratterizza l’Europa e, in maggior misura, l’Eurasia intera.

Penso, invece, che “Eurasia o Eurobabele?” voglia significare il disordine geopolitico che affligge l’Europa e le aree ad essa contigue.

Siccome sono stato invitato a parlare nella mia qualità di direttore di “Eurasia”, che è, come recita il sottotitolo, una “rivista di studi geopolitici”, prenderò in considerazione questa seconda accezione del termine “Eurobabele”, alla quale nel vocabolario geopolitico corrisponde un lemma specifico – balcanizzazione – applicabile sia alla condizione di un’area afflitta da instabilità e disordine cronici dovuti a conflitti etnici e religiosi, sia al processo di disgregazione degli Stati che tale condizione spesso comporta.

Per citare un solo esempio: analizzando il fenomeno della frammentazione degli Stati e della corrispondente proliferazione di entità statuali minori, il geopolitico François Thual applica il concetto di balcanizzazione sia all’emergere delle nazioni dell’America latina, sia alla devoluzione della parte araba dell’Impero ottomano[1].

Questo termine, balcanizzazione, nacque nelle cancellerie europee alla fine della prima guerra mondiale, che segnò la scomparsa di quattro imperi e la nascita di entità statuali mai esistite prima d’allora: fra le quali, nella Penisola Balcanica, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, che poi si chiamerà Jugoslavia; ma già nei cento anni precedenti (intercorsi fra la rivolta serba del 1815 e la fine della seconda guerra balcanica, nel 1913) l’Europa aveva assistito all’ultima fase dell’indebolimento ottomano ed alla nascita di sei nuovi Stati nella Penisola Balcanica: Grecia, Serbia, Montenegro, Romania, Bulgaria, Albania.

Alla fine della prima guerra mondiale, dunque, l’Europa orientale ed il Vicino Oriente furono sottoposti a una serie di dissezioni territoriali. Sia l’Impero ottomano sia le tre grandi potenze dell’Europa centrale ed orientale – Impero austro-ungarico, Impero prussiano ed Impero russo – furono ridotti territorialmente o suddivisi in Stati minori. L’Impero ottomano e l’Impero austro-ungarico furono propriamente balcanizzati.

Quanto all’ex Impero russo, esso era già stato mutilato nel 1918, col Trattato di Brest-Litovsk, che aveva sancito la vittoria degli Imperi centrali sul fronte orientale, la resa della Russia e la sua uscita dalla guerra. Il Trattato di Brest-Litovsk fu di fondamentale importanza nel determinare la nascita di sei nuovi Stati: Ucraina, Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia.

La creazione dei nuovi confini nell’Europa postbellica, come è noto, fu giustificata in base ai concetti di “democrazia” e di “autodeterminazione” proclamati dai Quattordici Punti di Woodrow Wilson.

 

I Balcani

Propriamente, Balcani (dal turco balkan, “montagna”) è un oronimo, ossia il nome di un sistema montuoso: è la catena montuosa che si estende dal fiume Timok, affluente di destra del Danubio, fino al Capo Emine sul Mar Nero.

Di qui le denominazioni Balcania e Penisola balcanica, con le quali i geografi indicano la penisola limitata ad est dal Mare Egeo, a sud dal Mediterraneo, ad ovest dallo Jonio e dall’Adriatico. A nord, l’interpretazione più estensiva fissa il confine di questa penisola in corrispondenza della linea immaginaria Trieste-Odessa; ma per lo più si tende ad assumere come limite settentrionale la linea segnata dal corso inferiore del Danubio, da quello della Sava e del suo affluente Kupa (tra Slovenia e Croazia, non lontano da Fiume).

In conformità di questo secondo punto di vista, possono essere considerati paesi balcanici a pieno titolo la Bulgaria, l’Albania, la Grecia e gli Stati successori della Jugoslavia (tranne la Slovenia, che viene inserita nel gruppo dei “paesi alpini”, ma è ritenuta parte integrante dei Balcani per varie ragioni). Paesi parzialmente balcanici, infine, sono la Romania e la Turchia.

Su questo territorio è stanziata una decina di popoli, nonché vari gruppi etnici minori; vi si parlano idiomi di diversa origine (tre o quattro lingue slave, il romeno, l’albanese, il neogreco, il turco) e vi si praticano confessioni religiose diverse (l’Ortodossia, il Cattolicesimo, l’Islam).

 

Huntington: i Balcani e le “guerre di faglia”

Il complesso mosaico costituito da una tale varietà etnica e culturale ha offerto agli strateghi dello “scontro delle civiltà” la possibilità di teorizzare, per scopi pratici, quel genere di conflitti che uno studioso statunitense, Samuel Huntington, ha chiamati “guerre di faglia”: ossia i conflitti fra Stati o gruppi etnici appartenenti a civiltà diverse.

A volte, scrive Huntington, le “guerre di faglia” hanno come obiettivo il controllo di popolazioni. “Più di frequente, – prosegue – la posta in palio è il controllo territoriale. Obiettivo di almeno uno dei belligeranti è conquistare territorio e liberarlo da chi vi abita mediante espulsione coatta, eliminazione fisica, o entrambe le cose, vale a dire mediante operazioni di ‘pulizia etnica’. Simili conflitti tendono ad essere particolarmente violenti e brutali, con il ricorso da entrambe le parti al massacro, al terrorismo, allo stupro e alla tortura. Spesso il territorio oggetto di contesa è per uno o per entrambi i contendenti un simbolo vitale della propria storia ed identità, terra sacra sulla quale vantano un diritto inviolabile: la Cisgiordania in Palestina, il Kashmir, il Nagornyj-Karabach, la valle della Drina, il Kosovo”[2] Ebbene, è stata proprio la costruzione statale più rappresentativa di tutto il mosaico balcanico, ossia la Federazione Jugoslava, a fornire il terreno per “il più complesso, confuso e variegato intreccio di guerre di faglia dei primi anni Novanta”. (Samuel P. Huntington, op. cit., p. 419).

 

Brzezinski: i “Balcani eurasiatici” contro lo “Spazio Centrale”

La realtà balcanica possiede dunque tutti i titoli necessari perché il termine Balcani, in quanto nome della rispettiva regione, possa dar luogo a quella metafora geopolitica che Zbigniew Brzezinski (consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter, dal 1977 al 1981) ha applicata ad una sua teoria particolarmente eversiva e distruttiva: la teoria dei “Balcani eurasiatici”.

I Balcani eurasiatici (The Eurasian Balkans) è il titolo di un capitolo del libro La grande scacchiera (The Grand Chessboard), dove Brzezinski, indicando quelli che il sottotitolo stesso dell’opera[3] definisce come gli “imperativi geostrategici” della superpotenza nordamericana, suggerisce ai politici statunitensi di favorire e di utilizzare l’anarchia etnica, religiosa e politica allo scopo di dominare l’intero continente eurasiatico.

“In Europa – scrive Brzezinski – la parola Balcani evoca immagini di conflitti etnici e di rivalità regionali di grandi potenze. Anche l’Eurasia ha i suoi Balcani, ma i Balcani eurasiatici sono molto più estesi, più popolosi, ancor più eterogenei sotto il profilo religioso ed etnico. Si trovano in quell’ampia ed oblunga area geografica che contrassegna la zona centrale di instabilità globale (…) che abbraccia porzioni dell’Europa sudorientale, l’Asia centrale e parti dell’Asia meridionale, l’area del Golfo Persico e il Medio Oriente”[4].

Brzezinski ritiene che gli Stati Uniti debbano balcanizzare lo spazio compreso tra Nordafrica e Asia Centrale, se vogliono impedire il consolidamento della grande alleanza tra Russia, Cina e Iran, alleanza che presidierebbe il continente eurasiatico e ridimensionerebbe in maniera decisiva la potenza statunitense.

Brzezinski formula la seguente ipotesi: “Se lo Spazio Centrale [“the middle space“, lo Spazio di Mezzo del continente eurasiatico] respinge l’Occidente, diventa un’unica imperiosa entità [an assertive single entity] ed acquisisce il controllo sul Sud o stabilisce un’alleanza col grande protagonista orientale [“the major Eastern actor“, ossia con la Cina], allora il primato dell’America in Eurasia crollerà in maniera drammatica. Avverrebbe la stessa cosa – aggiunge Brzezinski – se i due protagonisti orientali dovessero in qualche modo unirsi”[5].

In altre parole: se la Federazione Russa riuscisse a respingere ed a far indietreggiare l’avanzata dell’Alleanza Atlantica e cercasse di riorganizzare lo spazio ex sovietico secondo una qualche forma di confederazione o di blocco sopranazionale, guadagnando influenza nel Vicino Oriente o stabilendo un’alleanza con la Repubblica Popolare Cinese, allora l’influenza di Washington in Eurasia verrebbe definitivamente eliminata.

Ora, è chiaro che lo “Spazio Centrale”, la Russia, sta recuperando il peso geopolitico che aveva perduto col crollo dell’Unione Sovietica. Non solo, ma lo “Spazio Centrale” (la Russia) e il “Paese di Mezzo” (Zhongguo, la Cina) hanno coordinato da tempo le loro forze.

Ciò è avvenuto già prima che si formasse l’Unione Eurasiatica. Alla fine degli anni Novanta la Federazione Russa e una parte dello spazio postsovietico cominciarono a stabilire con la Cina un’intesa che ha prodotto l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e il coordinamento strategico di Pechino con Mosca al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il grande accordo russo-cinese del gas naturale non è se non un risultato di questa alleanza fra lo “Spazio Centrale” e il “Paese di Mezzo”.

 

Ucraina

L’importanza dell’Ucraina nella strategia del controllo americano sull’Eurasia è stata lucidamente evidenziata da Brzezinski circa vent’anni fa, quando non era facile immaginare il ruolo centrale che questo paese avrebbe assunto sulla “grande scacchiera” eurasiatica.

Eppure il geopolitico americano aveva indicato chiaramente la funzione di “perno” (pivot) svolta dall’Ucraina e la sua importanza vitale per la Russia e per l’intera Eurasia.

“L’Ucraina, un nuovo ed importante spazio sullo scacchiere eurasiatico, – possiamo leggere in The Grand Chessboard – è un perno geopolitico, perché la sua esistenza stessa come paese indipendente serve a trasformare la Russia. Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. La Russia senza l’Ucraina può ancora lottare per uno statuto imperiale, ma allora diventerebbe uno Stato imperiale prevalentemente asiatico, più facilmente trascinabile in conflitti debilitanti con le risorte popolazioni dell’Asia centrale (…) Comunque, se Mosca riprende il controllo dell’Ucraina, coi suoi 52 milioni di abitanti e le sue grandi risorse, nonché l’accesso al Mar Nero, la Russia automaticamente ritrova il modo per diventare un potente Stato imperiale, esteso sull’Europa e sull’Asia”[6].

Per Brzezinski, l’importanza dell’Ucraina è dovuta al fatto che essa agisce da scudo difensivo dell’Europa centrale e controlla i confini occidentali e meridionali della Russia.

Questo è lo sfondo strategico dell’interesse americano per l’Ucraina, espresso nel documento che la NATO e l’Ucraina hanno siglato nel 1997 per formalizzare il loro rapporto di partenariato.

In questo documento possiamo leggere: “Il ruolo positivo della NATO consiste nel mantenimento della pace e della stabilità in Europa, nella promozione di maggiore fiducia e trasparenza nell’area euro-atlantica, nell’apertura alla cooperazione con le nuove democrazie dell’Europa centrale e orientale, di cui è parte inseparabile l’Ucraina”.

Sono quasi vent’anni, dunque, che gli Stati Uniti considerano l’Ucraina come una parte del campo atlantista.

Quanto alla strategia dettata da Brzezinski, è evidente che essa si ispira alla visione geopolitica di Sir Harold Mackinder, dal quale, d’altronde, il geopolitico statunitense riprende espressamente questa formula celeberrima:

Who rules East Europe commands the Heartland;

Who rules the Heartland commands the World-Island;

Who rules the World-Island commands the world[7].

Ovvero:

“Chi governa l’Europa orientale, domina il Territorio Centrale [dell’Eurasia];

Chi governa il Territorio Centrale dell’Eurasia, domina l’Isola-Mondo [ossia il complesso Eurasia-Africa];

Chi governa l’Isola-Mondo, domina il mondo”.

Per questo motivo gli Stati Uniti devono impedire ad ogni costo che Mosca recuperi la propria egemonia sull’Ucraina.

Da parte loro l’Unione Europea e le cancellerie di alcuni paesi europei, appoggiando il colpo di Stato di Maidan, fornendo aiuto politico e militare al regime golpista di Kiev ed appoggiando le iniziative antirusse del governo statunitense, hanno collaborato attivamente alla realizzazione del piano elaborato dallo stratega della Casa Bianca, secondo il quale l’Europa costituisce la “testa di ponte democratica” degli Stati Uniti nel continente eurasiatico. Testualmente: “Europe is America’s essential geopolitical bridgehead on the Eurasian continent[8].

“Un’Europa allargata e una NATO allargata – afferma esplicitamente Brzezinski – serviranno bene, entrambe, gli obiettivi di breve e di lungo termine della politica statunitense. Un’Europa allargata estenderà il raggio dell’influenza americana (…) senza creare, allo stesso tempo, un’Europa politicamente così integrata che sia subito in grado di sfidare gli Stati Uniti in questioni geopolitiche di grande importanza per l’America in altre regioni, in particolare nel Medio Oriente”[9]. Un anno prima che il geopolitico Brzezinski assegnasse all’Europa il ruolo di “testa di ponte” (bridgehead) per la conquista americana dell’Eurasia, l’ideologo dello “scontro delle civiltà”, Samuel Huntington, aveva teorizzato in relazione all’Ucraina la necessità di “un forte ed efficace sostegno occidentale, che a sua volta potrebbe giungere solo qualora i rapporti tra Russia e Occidente si deteriorassero come ai tempi della Guerra Fredda”[10].

L’obiettivo degli Stati Uniti in Europa è sempre quello: creare tensioni geopolitiche per allontanare l’Unione Europea da Mosca. Così, anche la secessione dell’Ucraina è stata appoggiata per impedire un’eventuale integrazione fra l’Unione Europea e l’Unione Eurasiatica.

 

Balcanizzazione del Vicino Oriente e del Nordafrica

Anche nel Vicino Oriente la strategia americana ha alimentato e utilizzato le tensioni per indebolire gli alleati della Russia e, in particolare, per impedire il formarsi di un’alleanza guidata dalla Repubblica Islamica dell’Iran, considerata una minaccia mortale sia dal regime sionista sia dalle monarchie petrolifere.

Se sul fronte ucraino il progetto statunitense si è avvalso della collaborazione scoperta e diretta dell’Unione Europea, sui fronti del Vicino Oriente e del Nordafrica la strategia del “caos creativo” (il “creative chaos”) teorizzato dai neocons utilizza i movimenti di matrice wahhabita e salafita, tra i quali è infine emerso il sedicente “Stato Islamico in Iraq e nel Levante”, noto sotto l’acronimo arabo di Daesh e sotto quello anglosassone di Isis.

La natura eterodossa e settaria di queste forze è perfettamente funzionale agli obiettivi degli strateghi del caos, tant’è vero che ha scatenato una sorta di guerra intraislamica (forse potremmo chiamarla una “guerra civile islamica”) che contribuisce potentemente a destabilizzare l’area compresa fra la Tunisia e l’Iraq e attraverso il terrorismo minaccia la stessa sicurezza dell’Europa.

Vale perciò la pena di tentare una descrizione, sia pur necessariamente sommaria, delle correnti eterodosse sorte ai margini dell’Islam e mostrare come tali correnti siano state utilizzate, dal colonialismo britannico prima e dall’imperialismo americano poi, per balcanizzare il mondo musulmano e la stessa Europa.

 

Il “fondamentalismo islamico”

In chiusura di un lungo capitolo dedicato al rapporto fra l’Islam e l’Occidente, il già citato Samuel Huntington colloca questa frase, che merita di essere letta con un’attenzione maggiore di quella che finora le è stata riservata: “Il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’Islam in quanto tale”[11].

Secondo l’ideologo statunitense, l’Islam in quanto tale è un nemico strategico dell’Occidente, poiché è il suo antagonista in un conflitto di fondo, che non nasce tanto da controversie territoriali, quanto da un fondamentale ed esistenziale confronto tra due visioni del mondo: una basata sui diritti umani e l’altra sui diritti di Dio.

Ma la frase di Huntington non si limita a designare il nemico strategico; da essa è anche possibile dedurre l’indicazione di un alleato tattico: il fondamentalismo islamico. È vero che nelle pagine dello Scontro delle civiltà l’idea di utilizzare il fondamentalismo islamico contro l’Islam non si trova formulata in termini più espliciti; tuttavia nel 1996, quando Huntington pubblicò The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, una tattica di questo genere (cioè la manipolazione di movimenti fondamentalisti) era già stata inaugurata da un pezzo, ben prima che la CIA armasse i gruppi della guerriglia antisovietica in Afghanistan.

Questa tattica risale agli anni Cinquanta e Sessanta, allorché Gran Bretagna e Stati Uniti, individuato nell’Egitto nasseriano il principale ostacolo all’egemonia occidentale nel Mediterraneo, fornirono il loro sostegno al movimento dei Fratelli Musulmani.

L’uso strumentale dei movimenti fondamentalisti e settari funzionali alla strategia atlantica non terminò col ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan. Il patrocinio fornito dall’Amministrazione Clinton al separatismo bosniaco ed a quello kosovaro, l’appoggio statunitense e britannico al terrorismo nel Caucaso, il sostegno ufficiale di Brzezinski ai movimenti armati in Asia centrale, l’intervento occidentale a favore delle bande sovversive in Libia ed in Siria sono gli episodi successivi di una guerra contro l’Eurasia, nella quale gli USA e i loro alleati si sono avvalsi della collaborazione fornita da gruppi di ispirazione wahhabita e salafita.

Il fondatore del movimento fondamentalista tunisino An-Nahda, Rachid Ghannouchi, che nel 1991 ricevette gli elogi del governo di George Bush per l’efficace ruolo da lui svolto nella mediazione tra le fazioni afghane antisovietiche, ha cercato di giustificare il collaborazionismo di An-Nahda abbozzando un quadro pressoché idilliaco delle relazioni tra gli USA e il mondo islamico.

A un giornalista del “Figaro” che gli chiedeva se gli americani gli sembrassero più concilianti degli Europei Ghannouchi rispose di sì, perché, disse, “non esiste un passato coloniale tra i paesi musulmani e l’America; niente Crociate, niente guerra, niente storia”; ed alla rievocazione della lotta comune di americani e fondamentalisti contro il nemico bolscevico aggiunse la menzione del contributo dato dall’Inghilterra[12].

 

La “nobile tradizione salafita”

La tendenza rappresentata da Rachid Ghannouchi, scrive un orientalista italiano, è quella che “si richiama alla nobile tradizione salafita di Muhammad ‘Abduh e che ha avuto una versione più moderna nei Fratelli Musulmani”[13].

Viene chiamata salafita la corrente riformista che, richiamandosi ai “pii antenati” (as-salaf as-sâlihîn) vissuti ai primordi dell’Islam, fa piazza pulita della tradizione scaturita dal Corano e dalla Sunna nel corso dei secoli.

I capostipiti del salafismo sono il persiano Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897) e i suoi discepoli, i più importanti dei quali furono appunto l’egiziano Muhammad ‘Abduh (1849-1905) e il siriano Rashid Rida (1865-1935).

Al-Afghani, che nel 1883 fondò l’Associazione dei Salafiyya, nel 1878 era stato iniziato alla massoneria in una loggia di rito scozzese del Cairo. Egli fece entrare nell’organizzazione liberomuratoria gli intellettuali del suo entourage, tra cui Muhammad ‘Abduh, il quale, dopo aver ricoperto una serie di importanti cariche, nel 1899 diventò Muftì dell’Egitto col beneplacito degl’Inglesi.

“Sono i naturali alleati del riformatore occidentale, meritano tutto l’incoraggiamento e tutto il sostegno che può esser dato loro”[14]: questo l’esplicito riconoscimento dell’azione di Muhammad ‘Abduh e dell’indiano Sir Sayyid Ahmad Khan (1817-1889) che venne dato da Lord Cromer (1841-1917), uno dei principali architetti dell’imperialismo britannico nel mondo musulmano. Infatti, mentre Ahmad Khan asseriva che “il dominio britannico in India è la cosa più bella che il mondo abbia mai visto”[15] ed in una fatwa affermava che “non è lecito ribellarsi agli inglesi fintantoché questi rispettano la religione islamica e consentono ai musulmani di praticare il loro culto”[16], Muhammad ‘Abduh trasmetteva all’ambiente islamico le idee razionaliste e scientiste dell’Occidente contemporaneo, sostenendo la necessità di rivedere e correggere la dottrina tradizionale sottoponendola al giudizio della ragione e accogliendo gli apporti scientifici e culturali del pensiero moderno. Dopo ‘Abduh, capofila della corrente salafita fu Rashid Rida, che in seguito alla scomparsa del califfato ottomano progettò la creazione di un “partito islamico progressista” in grado di dar vita ad un nuovo califfato.

Intanto, nella penisola araba prendeva forma il Regno Arabo Saudita, la cui ideologia era costituita da un’altra dottrina riformista: quella wahhabita.

 

La corrente wahhabita

La corrente wahhabita trae nome da Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-1792), un arabo del Nagd seguace di un giurista letteralista vissuto quattro secoli prima nell’Impero omayyade, Ibn Taymiyya (1263-1328), condannato più volte per le sue vedute eterodosse.

Seguendone le orme, Ibn ‘Abd al-Wahhab e i suoi partigiani bollarono come manifestazioni di politeismo la fede nell’intercessione dei profeti e dei santi e tutti quegli atti che, a loro giudizio, equivalessero a ritenere partecipe dell’onnipotenza e del volere divino un essere umano o un’altra creatura; perciò considerarono politeisti, con tutte le conseguenze del caso, anche pii musulmani che pregavano accanto alle tombe dei santi.

I wahhabiti attaccarono i centri dell’Islam sciita, saccheggiandone i santuari; impadronitisi nel 1803-1804 di Mecca e di Medina, demolirono i monumenti sepolcrali dei santi e dei martiri e profanarono perfino la tomba del Profeta; misero al bando le organizzazioni iniziatiche e i loro riti; taglieggiarono i pellegrini e poi sospesero il Pellegrinaggio; emanarono le proibizioni più strampalate.

Sconfitti dall’esercito che il sovrano egiziano aveva inviato contro di loro per esortazione della Sublime Porta, i wahhabiti per un secolo impegnarono le loro energie nelle lotte intestine, finché Ibn Sa‘ud (1882-1953) risollevò le sorti della setta.

Patrocinato dalla Gran Bretagna, che, unico Stato al mondo, nel 1915 instaurò relazioni ufficiali con lui esercitando una sorta di protettorato sul Sultanato del Nagd, Ibn Sa‘ud riuscì ad occupare Mecca nel 1924 e Medina nel 1925. Diventò così “Re del Higiaz e del Nagd e sue dipendenze”, secondo il titolo che gli venne riconosciuto nel Trattato di Gedda del 1927, stipulato con la prima potenza europea che riconobbe la nuova formazione statale wahhabita: la Gran Bretagna.

Il consigliere più ascoltato di Ibn Sa‘ud fu l’inglese Harry St. John Bridger Philby (1885-1960), l’organizzatore della rivolta antiottomana, il quale caldeggiò presso Winston Churchill, Giorgio V, il barone Rothschild e Chaim Weizmann il progetto di una monarchia saudita che, usurpando la custodia dei Luoghi Santi tradizionalmente assegnata alla dinastia hascemita, unificasse la penisola araba e controllasse per conto dell’Inghilterra la via marittima Suez-Aden-Mumbay.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, nel quale l’Arabia Saudita mantenne una neutralità filoinglese, al patrocinio britannico si sarebbe aggiunto e poi sostituito quello americano. Un evento simbolico in tal senso fu l’incontro avvenuto il 1 marzo 1945 nel Canale di Suez, a bordo della Quincy, tra il presidente Roosevelt e il sovrano wahhabita.

Sarà utile ricordare che nel 1933 la monarchia saudita aveva dato in concessione alla Standard Oil Company of California il monopolio dello sfruttamento petrolifero, mentre nel 1934 la compagnia americana Saoudi Arabian Mining Syndicate aveva ottenuto il monopolio della ricerca e dell’estrazione dell’oro.

 

I Fratelli Musulmani e la “Primavera araba”

La famiglia dei Sa‘ud avvertì l’esigenza di disporre di una “internazionale” che le consentisse di estendere la propria egemonia nel mondo islamico, al fine di contrastare la diffusione del panarabismo nasseriano, del nazionalsocialismo baathista e successivamente – dopo il rientro dell’Imam Khomeini in Iran – della rivoluzione islamica. L’organizzazione dei Fratelli Musulmani mise a disposizione della politica di Riyad un movimento militante che trasse valido sostegno dai cospicui finanziamenti sauditi.

D’altronde la sinergia tra la monarchia wahhabita e il movimento fondato nel 1928 da Hassan al-Banna (1906-1949) si è basata su un terreno dottrinale sostanzialmente comune, poiché i Fratelli Musulmani sono gli “eredi diretti, anche se non sempre rigorosamente fedeli, della salafiyyah di Muhammad ‘Abduh”[17].

Tariq Ramadan, nipote di Hassan al-Banna, così interpreta il pensiero del fondatore dell’organizzazione: “Come tutti i riformisti che l’hanno preceduto, Hassan al-Banna non ha mai demonizzato l’Occidente. (…) L’Occidente ha permesso all’umanità di fare grandi passi in avanti e ciò è avvenuto a partire dal Rinascimento, quando è iniziato un vasto processo di secolarizzazione”[18]. L’intellettuale riformista ricorda che il nonno, maestro di scuola, si ispirava alle più moderne teorie pedagogiche occidentali e riporta da un suo scritto un brano eloquente: “Dobbiamo ispirarci alle scuole occidentali, ai loro programmi (…) Dobbiamo anche prendere dalle scuole occidentali e dai loro programmi il costante interesse all’educazione moderna”[19].

Con la cosiddetta “Primavera araba”, si è manifestata in maniera ufficiale la disponibilità dei Fratelli Musulmani ad accogliere quei capisaldi ideologici della cultura politica occidentale che Huntington indicava come termini fondamentali di contrasto con l’Islam.

In Libia, in Tunisia, in Egitto l’organizzazione dei Fratelli Musulmani ha goduto infatti del patrocinio statunitense.

In Egitto, il partito Libertà e Giustizia, costituito il 30 aprile 2011 per iniziativa della Fratellanza e poi messo fuori legge da Al-Sisi, si richiamava ai “diritti umani”, propugnava la democrazia, appoggiava una gestione capitalistica dell’economia, non era contrario ad accettare prestiti dal Fondo Monetario Internazionale. Il suo presidente Muhammad Morsi (n. 1951), diventato presidente dell’Egitto, aveva studiato negli Stati Uniti, dove aveva anche lavorato come assistente universitario alla California State University; due dei suoi cinque figli erano cittadini statunitensi. Diventato presidente, Morsi dichiarò che l’Egitto avrebbe rispettato tutti i trattati stipulati con altri paesi (quindi anche con Israele); fece in Arabia Saudita la sua prima visita ufficiale e dichiarò che intendeva rafforzare le relazioni con Riyad; proclamò “dovere etico” il sostegno al movimento armato di opposizione che si era ribellato al governo di Damasco.

Considerata da una prospettiva geopolitica, la “Primavera araba” può essere inserita nello scenario disegnato dall’americano Nicholas J. Spykman (1893-1943), del quale ricordo una celebre formula: “Chi controlla il territorio costiero dell’Eurasia [Rimland] governa l’Eurasia; chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo”[20]. Spykman suggerisce perciò agli Stati Uniti di concentrare il loro impegno sul Rimland, quella lunga fascia semicircolare che abbraccia il “territorio centrale” dell’Eurasia (il mackinderiano Heartland) dalle coste atlantiche dell’Europa fino al Giappone.

Siccome le coste meridionali e orientali del Mediterraneo sono un segmento del Rimland, Spykman ritiene necessario che esse vengano mantenute in uno stato di perenne disunione e instabilità.

In altre parole, occorre balcanizzare l’area mediterranea.

Oggi, pur concedendo che i movimenti di protesta e di eversione nel Nordafrica e nel Vicino Oriente abbiano avuto un’origine endogena e un’esplosione imprevista, non si può non constatare che gli Stati Uniti, dopo alcune iniziali esitazioni del loro Presidente, li hanno guardati con simpatia, li hanno patrocinati e sostenuti.

Le organizzazioni non governative e le varie associazioni dirittumaniste sostenute dalla CIA e dal Dipartimento di Stato hanno intensificato le loro attività nella regione, in conformità con la raccomandazione che fin dal 1993 Samuel Huntington aveva rivolta al governo americano: allacciare stretti legami con tutti coloro che, all’interno del mondo islamico, difendono i valori e gl’interessi occidentali.

Lo stesso “New York Times” ha riconosciuto che “alcuni movimenti e capi politici direttamente impegnati nelle rivolte del 2011 nel Nordafrica e in Medio Oriente (…) hanno ricevuto addestramento e finanziamenti dall’International Republican Institute, dal National Democratic Institute e dalla Freedom House[21]. Quest’ultima organizzazione, in particolare, già nel 2010 aveva accolto negli USA un gruppo di attivisti egiziani e tunisini, per insegnar loro a “trarre beneficio dalle opportunità della rete attraverso l’interazione con Washington, le organizzazioni internazionali e i media”[22].

Anche il National Endowment for Democracy ha comunicato ufficialmente, tramite il suo sito informatico (www.ned.org), di aver versato nel 2010 più di un milione e mezzo di dollari ad organizzazioni egiziane impegnate nella difesa dei “diritti umani” e nella promozione dei “valori democratici”.

Ai finanziamenti del National Endowment for Democracy e di altri enti statali americani si sono aggiunti i fondi stanziati dalla Open Society Foundation di George Soros, che nel 2010 ha finanziato organizzazioni e movimenti in tutto il mondo arabo e in particolare in Egitto e in Tunisia. Se poi si risale al 2009 e ci si limita a considerare l’Egitto, il bilancio dei fondi dell’USAID destinati alle organizzazioni democratiche e dirittumaniste ammonta complessivamente a 62.334.187 dollari[23]. Una cifra enorme, che in Egitto è stata superata soltanto dai cento milioni di dollari elargiti dall’Emiro del Qatar ai Fratelli Musulmani[24].

Le reti eversive finanziate dagli USA hanno rovesciato i governi della Tunisia e dell’Egitto. Quanto alla Libia, i gruppi eversivi locali (Fratelli Musulmani, Al-Qaida e residui della Senussia filobritannica) hanno collaborato con gli aggressori occidentali per abbattere Gheddafi e realizzare lo scenario che il geopolitico François Thual aveva paventato in un suo libro del 2002, da me pubblicato in italiano nel 2008: “sul tracciato delle vecchie reti senussite, – scriveva Thual – l’agitazione islamista potrebbe provocare l’esplosione di questo paese artificiale e recente. Nella Cirenaica si concentrano le ricchezze petrolifere; e il regime di Gheddafi irrita certe capitali occidentali che non vedrebbero male una divisione della Libia”[25].

Infine, distruggendo la Libia, gli esecutori europei della strategia statunitense del “caos creativo” hanno aperto un varco attraverso cui milioni di africani si riversano sul territorio europeo.

 

La Russia

Sull’altro versante del Mediterraneo, invece, nonostante l’appoggio statunitense, britannico, francese, turco, saudita e catariota, il terrorismo e la lotta armata non sono riusciti ad abbattere il governo di Damasco.

Grazie al soccorso fornito dalla Russia e dalla Repubblica Islamica dell’Iran e grazie al sostegno dato da Hezbollah, la Siria è ancora in piedi.

Con l’irruzione della Russia sulla scena del Vicino Oriente e col suo impegno a combattere il terrorismo (sia quello del Daesh sia quello dei cosiddetti “ribelli moderati”), la teoria di Brzezinski sui “Balcani eurasiatici” ha subito un duro colpo, poiché è stata bloccata la destabilizzazione nell’apice siriano-iracheno del cosiddetto “arco di crisi” descritto dallo stesso Brzezinski.

Brzezinski, il freddo giocatore di scacchi, ha perso la sua caratteristica calma e in un editoriale scritto per il “Financial Times” ha esortato gli Stati Uniti a bombardare le postazioni navali ed aeree in Siria.

Il tentativo statunitense di scatenare il “caos creativo” può dirsi fallito, almeno per ora.

 

Migrazioni

Se si deve parlare di Eurobabele, quello dei flussi migratori selvaggi ne costituisce indubbiamente un aspetto inquietante.

Sembra proprio che l’Europa abbia a che fare con quelle che Kelly M. Greenhill (già assistente del senatore John Kerry e già consulente del Pentagono) chiama “migrazioni progettate coatte” (coercive engineered migrations), vale a dire “movimenti di popolazione transfrontalieri che vengono deliberatamente creati o manipolati al fine di strappare concessioni politiche, militari e/o economiche ad uno o più Stati presi di mira”[26].

Le “migrazioni progettate coatte” si configurano perciò come un’arma non convenzionale usata per combattere quella che due polemologi cinesi, i colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsui, hanno chiamata “guerra senza limiti”.

Il famigerato George Soros, che questi due polemologi accostano esplicitamente a Bin Laden[27], è stato citato dal primo ministro ungherese Viktor Orbán in relazione al massiccio arrivo in Europa di sedicenti profughi provenienti dall’Africa e dal Vicino Oriente.

“Il suo nome – ha detto Orbán – rappresenta forse il caso più noto di coloro che sostengono tutto ciò che sovverte il tradizionale stile di vita europeo”, mentre gli attivisti delle sue organizzazioni, fornendo assistenza legale e pratica agl’immigrati clandestini, “diventano inavvertitamente parte della rete internazionale di contrabbando di esseri umani”.

 

L’Europa al bivio

Il fenomeno epocale che il linguaggio politicamente corretto delle attuali classi dirigenti chiama, con un eufemismo anodino, la “crisi dei migranti” è strettamente connesso alla mancanza di sovranità e di vera unità dell’Europa, la quale non è in grado di controllare i propri confini.

Perciò oggi l’Europa si trova veramente ad un bivio: o rimane nell’orbita atlantica e continua a svolgere il ruolo subalterno che gli Stati Uniti le impongono, con tutte le catastrofiche conseguenze che tale ruolo comporta, oppure si assume le responsabilità geopolitiche che le competono nel grande continente eurasiatico di cui è parte integrante.

Se deciderà di optare per la propria sovranità e di svolgere la propria specifica funzione, l’Europa dovrà innanzitutto riappropriarsi del suo spazio e presidiarlo al di fuori dell’alleanza atlantica; dovrà ripensare in maniera radicale i suoi rapporti con la Russia e col resto dell’Asia, su base paritaria ma funzionale all’integrità geopolitica del continente eurasiatico; dovrà, di concerto con gli altri grandi spazi del continente, impegnarsi a contrastare le mire di egemonia degli Stati Uniti nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo.

Intesa eurasiatica e solidarietà mediterranea sono i due vettori che definiranno lo scenario geopolitico dell’Europa del XXI secolo.

 

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[1] François Thual, Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008.

[2] Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, pp. 374-375.

[3] American Primacy And Its Geostrategic Imperatives.

[4] “In Europe, the word Balkans conjures up images of ethnic conflicts and great-power regional rivalries. Eurasia, too, has its Balkans, but the Eurasian Balkans are much larger, more populated, even more religiously and ethnically heterogeneous. They are located within that large geographic oblong that demarcates the central zone of global instability (…) that embraces portions of southeastern Europe, Central Asia and parts of South Asia, the Persian Gulf area, and the Middle East” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard. American Primacy And Its Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1997, p. 123).

[5] “But if the middle space rebuffs the West, becomes an assertive single entity, and either gains control over the South or forms an alliance with the major Eastern actor, then America’s primacy in Eurasia shrinks dramatically. The same would be the case if the two major Eastern players were somehow to unite” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, cit., p. 35).

[6] “Ukraine, a new and important space on the Eurasian chessboard, is a geopolitical pivot because its very existence as an independent country helps to transform Russia. Without Ukraine, Russia ceases to be a Eurasian empire. Russia without Ukraine can still strive for imperial status, but it would then become a predominantly Asian imperial state, more likely to be drawn into debilitating conflicts with aroused Central Asians (…) However, if Moscow regains control over Ukraine, with its 52 million people and major resources as well as its access to the Black Sea, Russia automatically again regains the wherewithal to become a powerful imperial state, spanning Europe and Asia” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard. American Primacy and its Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1997, p. 46).

[7] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, cit., p. 38.

[8] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, cit., p. 59.

[9] “A larger Europe and an enlarged NATO will serve well both the short-term and the longer-term goals of U.S. policy. A larger Europe will expand the range of American influence (…) without simultaneously creating a Europe politically so integrated that it could soon challenge the United States on geopolitical matters of high importance to America elsewhere, particularly in the Middle East” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, cit., p. 199).

[10] Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2001, p. 242.

[11] Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 319.

[12] “- Les Américains vous semblent-ils plus conciliants que les Européens? – A l’égard de l’islam, oui. Il n’y a pas de passé colonial entre les pays musulmans et l’Amérique, pas de croisades; pas de guerre, pas d’histoire… – Et vous aviez un ennemi commun: le communisme athée, qui a poussé les Américains à vous soutenir… – Sans doute, mais la Grande-Bretagne de Margaret Thatcher était aussi anticommuniste…” (Tunisie: un leader islamiste veut rentrer, 22/01/2011; http://plus.lefigaro.fr/article/tunisie-un-leader-islamiste-veut-rentrer-20110122-380767/commentaires

[13] Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 137.

[14] Cit. in: Maryam Jameelah, Islam and Modernism, Mohammad Yusuf Khan, Srinagar-Lahore 1975, p. 153.

[15] Cit. in: Tariq Ramadan, Il riformismo islamico. Un secolo di rinnovamento musulmano, Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2004, p. 65.

[16] Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, cit., p. 23.

[17] Massimo Campanini, I Fratelli Musulmani nella seconda guerra mondiale: politica e ideologia, “Nuova rivista storica”, a. LXXVIII, fasc. 3, sett.-dic. 1994, p. 625.

[18] Tariq Ramadan, op. cit., pp. 350.

[19] Hassan al-Banna, Hal nusir fi madrasatina wara’ al-gharb, “Al-fath”, 19 sett. 1929, cit. in: Tariq Ramadan, op. cit., p. 352.

[20] Nicholas Spykman, The Geography of Peace, Harcourt Brace, New York 1944, p. 43.

[21] U.S. groups Helped Nurture Arab Uprising, “The New York Times”, 15 aprile 2011.

[22] New Generation of Advocates: Empowering Civil Society in Egypt, dal sito di Freedom House (www.freedomhouse.org).

[23] Alfredo Macchi, Rivoluzioni S.p.A., Alpine Studio 2012, p. 282.

[24] Alfredo Macchi, op. cit., p. 208.

[25] François Thual, La planète émiettée. Morceler et lotir: une nouvelle art de dominer, Arléa, Paris 2002, p. 124; ed. it. Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008, p. 92.

[26] “cross-border population movements that are deliberately created or manipulated in order to induce political, military and/or economic concessions from a target state or states” (K. M. Greenhill, Weapons of Mass Migration. Forced Displacement, Coercion, and Foreign Policy, Cornell University Press, Ithaca and London 2010, p. 13).

[27] Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001, pp. 101 e 118.

 

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